Consigli d'uso

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giovedì 6 maggio 2010

L'isola che non c'è



Lei ha i jeans strappati. Anche le perline del ricamo sono macchiate di sangue. E il piede destro ha perso la calzatura marchiata D&G, sicché si vede il calzino bianco imbrattato di rosso. Pure lui ha i denim lacerati. Sotto i brandelli di tela si scorgono delle ferite. Ma entrambe le scarpe gli sono rimaste addosso, come il giubbotto da centauro che ha gli stessi colori della motocicletta, bianco, argento e blu. Eccoli Chiara Filippin e Omar Artuso, nell’istante fatale in cui la due ruote sulla quale viaggiavano a velocità sostenuta, la sera del 12 luglio 2009 a Vedelago, si scontrò con l’auto di un cinese sbucato da una laterale senza dare la precedenza.

Chiara Filippin e Omar Artuso, di 23 e 24 anni, morti la sera del 12 luglio 2009 a Vedelago
Chiara Filippin e Omar Artuso, di 23 e 24 anni, morti la sera del 12 luglio 2009 a Vedelago
Chiara Filippin e Omar Artuso, di 23 e 24 anni, morti la sera del 12 luglio 2009 a Vedelago
Ma questa non è una fotografia della polizia stradale, buona al massimo a finire dimenticata in qualche fascicolo della procura. No: questo, che il prossimo 26 febbraio sarà inaugurato davanti ad una scuola di Fonte, è un monumento-choc contro le stragi della strada. Un’installazione in cui la quasi normalità dei rottami di un veicolo si carica dell’assoluto turbamento provocato dalla presenza di due manichini, vestiti con gli abiti squarciati ed insanguinati effettivamente indossati dai due fidanzati di San Zenone degli Ezzelini, la domenica in cui la 23enne ed il 24enne morirono di ritorno da una gita al mare. Il pranzo tutti insieme a Caorle, per festeggiare il diploma da geometra conseguito quella stessa settimana da Chiara, il secondo dopo la licenza linguistica. Una scelta anche d’affetto per papà Italo, affermato architetto ad Onè. Poi il pomeriggio in spiaggia, i parenti a ponente e la giovane coppia a levante, in un delicato gesto d’intimità. Quindi il ritorno a casa: gli altri in macchina e loro in moto, «con il casco ed il giubbotto da motociclista», come ricordano i familiari dei due ragazzi nel pannello che narra gli antefatti e spiega le finalità del simulacro, tre metri per due e cinquantacinque di dolore e coraggio. Perché ci deve volere davvero una grande forza d’animo, per superare lo strazio della sofferenza, e farsi dissequestrare i rottami di una Yamaha semidistrutta, e farsi restituire degli indumenti impregnati di morte. E poi ricomporle, quelle lamiere e quelle stoffe, su una pedana di legno che ricostruisce la tremenda scena di un duplice incidente mortale.

Un puzzle di cronaca e monito, in cui le foto dei giorni felici si incastrano con un mezzo devastato dallo schianto, i caschi graffiati dall’urto, una scarpa slacciata, una cassetta postale per il recapito di eventuali messaggi, gli articoli di giornale. E quei due fantocci con le facce blu-viola solcate di sangue, avatar di quello che però non è un film, adagiati perpendicolarmente l’uno all’altro, con le teste vicine ma gli sguardi che non si incroceranno mai più. Il monumento è stato chiamato «L’isola che non c’è». Ovvero «il luogo dove risiedono i desideri, dove mai si potrebbe verificare quanto accaduto, ma anche il luogo dei pensieri, della riflessione sulla realtà degli accadimenti che a volte si dissociano crudamente dall’apparenza, la fabbrica di quello che si vorrebbe fosse e della bellezza». Perché «l’isola che non c’è è abitata solo da giovani e Chiara ed Omar sono nella parte più bella!».
Ecco, ci vuole fegato anche per mettere un punto esclamativo, in fondo a questa specie di epigrafe che spiega il senso di un’installazione che turba. «Me ne sono accorto guardando gli studenti che collaboravano con me nell’allestimento: non scherzavano più, non parlavano neanche, semplicemente si fermavano a guardare e pensare», racconta Italo Filippin, anima di un’iniziativa concordata con il centro di formazione professionale della Fondazione Opera Montegrappa, l’istituto in cui aveva studiato Omar. Un’operazione concordata con la sezione di Treviso dell’Associazione nazionale vittime della strada, che conta di portare il memento davanti a tutte le scuole della Marca e, in estate, pure fuori dalle discoteche.


osa pensare? uno shock forte come quello suscitato da questa installazione, servirebbe a instillare nelle menti del patentato medio un pò di buon senso, un pò di rispetto per gli altri utenti della strada? Certo è che in un paese dove regna un totale immobilismo per quanto riguarda le campagne di pubblicità progresso relative alla sicurezza sulle due ruote, questo gesto di un padre sofferente, può essere un punto di partenza.


1 commento:

Giovanni Stoto ha detto...

ogni tentativo di sensibilizzazione per le due ruote é inutile in Italia... ma il problema non é solo delle 4 ruote verso le 2 ruote, il problema é anche delle 2 ruote: troppi apprendisti su 2 ruote (il 99% su scooter) che nel traffico si comportano da maleducati ed immortali...